Seguo il lavoro di Tanchi Michelotti da oltre trent’anni. Da quando, poco più che ragazzina, entrai per la prima volta nel suo studio di Ceva — il mio paese — e lui mi accolse con quella calma elegante che ancora oggi lo contraddistingue. È sempre un privilegio stargli accanto. Parlargli. Ascoltarlo. Un uomo colto, pacato, ironico. Un artista autentico, uno di quelli rari, che non si prendono sul serio, ma prendono sul serio ciò che fanno. Che non ti impongono la loro arte: te la offrono, con naturalezza. Te la fanno respirare.
La conversazione che leggerete si è svolta in un assolato pomeriggio del luglio 2019, nel giardino della sua villa-studio, durante la seconda edizione di ARTCaffè in Italia. Davanti a un pubblico numeroso, attento, curioso. Un pubblico che credeva di conoscerlo. Ma Tanchi Michelotti è uno di quegli uomini che sfuggono. Sempre. Alle definizioni, alle etichette, alle interpretazioni comode. E con lui, la sua arte: mai docile, mai ovvia, mai uguale a se stessa.
ARTCaffè: Tanchi, oggi vorremmo ripercorrere la tua carriera dagli inizi, partendo dall’infanzia.
Tanchi Michelotti: Ho 86 anni, l’infanzia è cosa lontana. Tutti i bambini disegnano, colorano, e io ho fatto gli stessi esordi. Senonché quasi tutti i bambini, crescendo, smettono, perché c’è un’età — non so se siano i 6 o i 7 anni — che è quella della rottura con il disegno. Il senso critico si fa più acuto e il bambino non è più soddisfatto di quello che la sua mano realizza, perché sa benissimo che le teste non sono rotonde, che una riga non è un naso.
Quelli destinati a far pittura, invece, continuano, perché disegnano bene, meglio. Io ero uno di questi. So la mia storia, perché me la raccontavano. Un regalo che mi piaceva moltissimo era una risma di carta, la matita, i pastelli colorati. Passavo molto tempo lasciando tranquilli i miei perché disegnavo. C’era la guerra, quindi i temi delle mie vignette erano scene di battaglia, di cannoneggiamenti, uomini a cavallo.
Più grandicello, ero il predestinato a fare il giornaletto del campeggio. Al liceo collaboravo al giornale ciclostilato, che tante grane suscitava con le caricature dei professori. Per me è stata una storia continua: sono nato con la matita in mano.
ARTCaffè: Passiamo alla giovinezza, agli anni del liceo. Come hai nutrito la tua passione per l’arte? C’è stata una persona, o una situazione, in particolare, che l’ha innescata?
Tanchi Michelotti: Quando uno ha una passione, provoca le occasioni senza rendersene conto.
Un episodio che ricordo riguarda il farmacista di Ceva di quei tempi. Avevo 17 anni, vide alcuni miei disegni e li guardò con un certo interesse, riconoscendo del talento. Il dottor Ferrato, questo era il suo nome, era della stessa classe del pittore torinese Enrico Paulucci e disse che mi avrebbe organizzato un appuntamento con lui. A 17 anni, all’Accademia, Paulucci, gentilmente, mi ricevette e diede consigli, guardando la mia cartellina di schizzi, probabilmente molto acerbi.
Quando ero a Torino all’Università, incontravo Paulucci alla Galleria d’Arte La Bussola, sotto i portici, in mille occasioni. In un certo senso mi ha accompagnato, guardavo alla sua pittura con grande interesse. Più che strade aperte in senso ufficiale, quelle, come tante altre, erano occasioni. Un altro esempio è stato il contatto con Ego Bianchi, pittore cui è intitolato il Liceo Artistico di Cuneo. Morto giovane, ha lasciato un’impronta, ha portato una ventata di novità. Non so bene dove l’abbia respirata, questa ventata di novità, ma ha dato uno scossone alla pittura monregalese e cuneese. In quel periodo, Ego Bianchi era a Mondovì, nessuno l’aveva mai conosciuto personalmente. Con grande ardire, andai con alcuni amici a chiedergli se avrebbe fatto una mostra a Ceva. Lui accettò volentieri. Avevamo quell’ardore garibaldino che ci portava ad osare, a contattare anche grandi personaggi.
ARTCaffè: Spostiamoci alla scena torinese e al periodo universitario. Com’erano in quel momento Torino e la scena dell’arte? Quali erano le tue opere e i tuoi temi?
Tanchi Michelotti: Sono approdato a Torino nel ’51, prima studente di Architettura, poi di Lettere. Si facevano a quei tempi le mostre Universitarie di arte figurativa nella sede della Gazzetta del Popolo in Via Roma, all’altezza delle due fontane. Erano mostre di una certa imporanza, ne parlavano i quotidiani di Torino. In giuria c’erano Paulucci, Casorati, critici d’arte, Alberto Rossi. Lì ho conosciuto Romano Reviglio di Cherasco, il musicista Liberovici e tanti giovani intellettuali torinesi.
La guerra era finita, si sperimentava, c’era una gran passione, una gran voglia di fare, un certo fervore di iniziative, soprattutto nei giovani.
Ero agli esordi, che nel mio caso sono stati un po’ disordinati. Si è quasi sempre degli orecchianti: rifai cose che hai visto, anche se non nel senso del copista. Respiri l’atmosfera di chi ti suggestiona. Prima di trovare la tua strada, i tuoi temi, pencoli tra linguaggi e filosofie diversi. Per un breve periodo avevo guardato al Picasso meno picassiano, poi ai pittori italiani: Cassinari e la sua scomposizione della figura, le pennellate di rottura; oppure Afro, quando sconfinavo quasi nell’astratto. Con un amico carissimo andavo alla Biennale di Venezia: era diventato un appuntamento fisso. Vivevo di imbeccate che mi arrivavano da quello che vedevo — ci si fan le ossa anche in questo modo. Poi, la maturità sopraggiunge e si è più se stessi.
I miei temi erano il nudo femminile, che poi è rimasto, ma meno frequente; il paesaggio, che negli ultimi decenni ho tralasciato quasi del tutto; non ancora il cavallo.
ARTCaffè: Sempre a quel periodo risale la tua esperienza delle Conversazioni in RAI, che ti ha portato a frequentare Roma conuna certa regolarità.
Tanchi Michelotti: Negli anni ’50 c’era ancora la sede RAI di Torino, e qui, grazie al Comandante partigiano Mauri, arrivavano molti giovani. Fra questi, Umberto Eco, Vincenzo Incisa, con altri laureati o laureandi dell’Università di Torino. Io avevo avuto l’incarico di scrivere i testi per alcune Conversazioni, programmi parlati di un quarto d’ora, pagati 20.000 lire al pezzo, che giustificavano il viaggio a Roma, dove avevo degli amici. Uno di loro mi chiudeva in casa a dipingere quadri, che poi vendeva. Con questo mi pagavo il soggiorno a Roma, dove trascorrevo settimane. Lo racconto un po’ alla bohemienne, ma era una bellissima avventura. Ho avuto una giovinezza molto aperta, fatta di grandi conoscenze.
Carlo Levi, ad esempio. Era stato compagno di scuola di mia mamma a Torino, al Ginnasio. Ogni volta che andavo a Roma, mia mamma mi diceva di portargli i suoi saluti, ed io ero un po’ infastidito da questa incombenza. Una sera, arrivato in Piazza del Popolo, l’ho visto sulla porta del bar Canova, con il suo sigaro in bocca. Era solo, e ho avuto l’ardire di abbordarlo. Lui mi ha intrattenuto, mi ha raccontato che quando andavano al mare e passavano sulla linea ferroviaria, sua madre li chiamava tutti al finestrino, a vedere la casa dove era stata con lo zio Claudio Treves, deputato socialista, mandato al confino a Ceva. La casa è quella che si trova di fronte a questo giardino.
Insomma, mi muovevo in un ambiente molto stimolante. Poi sono tornato a Ceva e mi sono chiuso un po’ qui, ma resto la mente vivace di quando avevo vent’anni.
ARTCaffè: Pensi che un pittore che si ferma in un piccolo paese abbia meno stimoli di uno che trascorre la sua vita in una grande città?
Tanchi Michelotti: Ceva è la capitale del mio cuore. A Ceva ho incontrato la donna della mia vita; ho avuto la mia maturazione; ho conosciuto tutta l’umanità, perché c’è un campionario notevole, che la sintetizza. Ho coltivato le mie speranze di giovane, le mie arrabbiature, i miei sogni politici. Ho creduto, ho perso l’idea di Dio. Qui è il mondo dei miei affetti, della mia famiglia, dei vecchi che non ho conosciuto, ma di cui si parlava in casa. Io sono legato al passato.
Il paese è uno solo, la patria è una sola e io ho la fortuna di viverci. Vivo a Ceva e la mia patria è Ceva. I portici, da una parte il torrente, in fondo il Duomo; le botteghe, la storia del paese. Io ci passavo bimbetto, e adesso ho 86 anni. Purtroppo, Ceva non è perfetta, ma nessuno è perfetto. Per me, però, è un paese bellissimo.
ARTCaffè: Arrivato a Ceva, non ti sei dedicato unicamente all’arte, ma hai fatto anche altro. Perché?
Tanchi Michelotti: Sono un uomo forse un po’ sconosciuto anche a chi mi conosce bene. Avevo una passione che era quella politica, ma non la politica fatta dalle beghe di partito. Al liceo, il mio professore di Latino era molto anziano e aveva un figlio morto partigiano in Val Tanaro. Al termine della sua ultima lezione, aveva fatto un discorso di congedo breve, ma toccante. Aveva detto: “Perdonateci, perdonate noi della nostra generazione che vi lasciamo un mondo distrutto. Fate in modo che non succeda anche a voi di congedarvi dalla vita dovendo chiedere scusa ai giovani.” Mi ero commosso a queste parole. È stato un po’ un viatico per il futuro. Mi dicevo: il mondo può essere migliore.
La guerra era finita, si viveva ancora di dopoguerra in un certo senso. Il miracolo economico è venuto pochi anni dopo. A Ceva un amico carissimo, Ernesto Rebaudengo, aveva fondato con altri un centro di formazione professionale, che esiste ancora oggi. Mi aveva chiesto di andare a fare qualche ora di cultura generale. Ho incominciato quasi per scherzo, poi è diventata una passione veramente profondissima. Ero un insegnante spiritoso. In realtà, io son stato un insegnante serissimo e credo di aver lasciato, in qualcuno, una traccia, un solco. Ho insegnato a questi giovani la libertà, la verità — il coraggio della verità e il coraggio della libertà.
Ho fatto questo lavoro con una enorme passione. Sono stato un pittore dilettante e anche questo lo rivendico, perché non si è pittori di mestiere. Sono stato pittore dilettante e sono stato insegnante, ho vissuto la professione come una missione.
ARTCaffè: Passiamo ora agli aspetti più tecnici del tuo lavoro e della tua pittura.
Tanchi Michelotti: Dipingo ad olio, su tavole di legno, con dei pennellacci di 4-5cm. Mia moglie dice che è per fare in fretta e per togliermi il fastidio.
In realtà, è perché ho bisogno che il lavoro sia immediato. La mia paura è di annoiarmi a metà del quadro: lavoro velocemente, devo essere telegrafico prima che si smorzi l’ispirazione.
Se il quadro non viene, appoggio la tavola in un angolo. Due giorni dopo è secca, allora ci vado sopra. Se mi interessa una macchia, una striatura, una campitura, la lascio. Magari era un cavallo e diventa una bicicletta, era una figura e diventa un galletto. Così dipingo io: pentimenti, correzioni, improvvisazioni.
ARTCaffè: Lavori su un quadro, ci torni e ci ritorni. Quand’è che lo consideri finito?
Tanchi Michelotti: È una cosa misteriosa. Mia moglie, che è il grillo parlante, dice sempre: non è finito. Faccio una pennellata di mezzo centimetro, ed ecco che è finito.
Ma è così, devo sentirlo io. Il quadro è un’invenzione, deve stupirmi. Il quadro è mio, lo faccio io, ma ad un certo punto, quando riesce, è come se l’avesse fatto qualcun altro. È una cosa meravigliosa e un po’ spiazzante.
Una volta ho dipinto una bicicletta. È venuto un amico e se l’è portata via appena finita. Un giorno vado a casa sua, resto incantato e penso: chi ha fatto quella bici stupenda? Ho poi capito che l’avevo fatta io. Lui proponeva dei cambi e io me la sono astutamente ripresa, e adesso non la do a nessuno. Non so cos’abbia di particolare, ma la considero magnifica perché non credo di averla fatta io. È quasi come se fosse nata da sola.
Giorgio Vasari, pittore del ‘500, ha scritto la vita di Spinello Aretino, pittore giottesco. Dice così: Spinello Aretino dipinse un demonio e ne morì di spavento. È una cosa stupenda, è la cosa più sublime che ti possa succedere. A un certo punto, il quadro non è più tuo: hai mescolato le carte, hai tirato i dadi, hai messo la polverina magica e il quadro ha preso vita ed è altro da te. Tu sei stato solo lo strumento per farlo, perché avvenisse questa cosa. Ti supera, ti scavalca, scavalca la tua fantasia, la tua abilità tecnica. Questo succede con pochi quadri. Putroppo, non tutto quello che fai ha quella dote. Spinello Aretino: un pittore dovrebbe auspicare una fine così.
ARTCaffè: Parliamo del concetto di tempo nei tuoi lavori. In teoria, nelle tue opere non c’è dinamismo. Si ha però la sensazione che sia appena successo qualcosa, o che stia per succedere qualcosa, ma la storia la scrive chi guarda l’opera.
Tanchi Michelotti: La tragedia della pittura è che è un’arte immobile. Nei quadri il tempo e le azioni sono sospese. La pittura è affermazione drastica e monotona, fuori del tempo.
Certe volte faccio due lune che si intrecciano, o due lune sparse nello sfondo. Qualcuno, interpretando, mi ha chiesto se voglio rappresentare il tempo che passa, come se un astro si spostasse nel cielo. Più semplicemente, io dico che avevo uno spazio da riempire nella composizione...
ARTCaffè: Segui una routine, nel tuo fare arte?
Tanchi Michelotti: Io dipingo con sincerità e approfondimento. Non dipingo tutti i giorni, metodicamente, ma quando ho voglia, quando ho qualcosa che mi urge. Forse è un po’ un sollievo: sento che devo farlo e lo faccio con soddisfazione, qualunque sia l’esito, anche se un giorno non esce niente di ben fatto. Dipingo ogni giorno come se fosse il primo in cui prendo il pennello in mano. Non si impara niente, in 70 anni di pittura. Con tutti i vantaggi e gli svantaggi.
ARTCaffè: Il tuo lavoro è piuttosto stilizzato, ma c’è sempre la possibilità di individuare un tema. Ci sono i cavalli, i treni, i nudi, le biciclette... Partiamo dal cavallo.
Tanchi MIchelotti: Il cavallo è un tema antico e ricorrente. I miei cavalli sono sempre senza zampe: ci sono un busto, il collo e la testa, ma appena un accenno di zampe, forse perché sono un po’ gracili rispetto alla potenza del tronco e della testa, vai a sapere.
Io dipingo senza pormi dei problemi sul come, sui temi. Dipingo il cavallo perché mi piacciono i cavalli, hanno dietro tutta una letteratura. Sono un tema nella storia del’arte, in cui quasi sempre hanno in groppa il cavaliere. Io, invece, dipingo il cavallo, intenzionalmente, senza il cavaliere.
Perchè, non so. Non posso fare un cavallo? Concedetemi questa libertà. Non si può spiegare tutto. In fondo, essere liberi di fare un quadro è una piccola colpa.
ARTCaffè: Lasciamo allora da parte temi delle tue opere. Passiamo al tuo rapporto con il disegno e alla sua importanza nel tuo lavoro.
Tanchi Michelotti: Io disegno molto e disegno bene. Sono pochi quelli che oggi sanno disegnare. Faccio schizzi a matita, o con quei trattopen che sono sconsigliati, perché hanno un segno lineare, insensibile, uguale da quando parte a quando arriva, ma che a me piace moltissimo.
Lavoro su fogli extrastrong, quindi i miei disegni sono fragili, si spiegazzano. Li tengo in scatole, ma si danneggiano lo stesso. Non sempre i miei schizzi sono preparatori a dipinti, molto spesso sono fine a sé stessi. Il mio modo di disegnare è un po’ ossessivo: il tema è ripetuto ossessivamente, ma con varianti grafiche notevoli, con una ricerca continua, un gusto di tentare.
È una cosa bellissima: in pochi centimetri quadrati tu susciti il mondo che vuoi, in barba a tutto e a tutti. Nessuno ti può venire a dire: ma perché hai fatto un cavallo? Perché lo so solo io —anzi, non lo so nemmeno io, ma è così bello non dover render conto. La pittura è libertà. Io ho pochi temi ripetuti, in cui respiri la libertà. La bicicletta, ogni volta che la fai, è una diversa bicicletta. È un ritornare sul tema con delle varianti, rinnovandolo.
La pittura è una cosa estremamente seria. Può riempire una vita, anche se sei un pittore mediocre. A volte si è severi con i pittori mediocri, ma è gente che ci ha provato. Guardate i pittori con benevolenza, per favore. Non tutti sono dei geni. C’è il buon pittore che non dà fastidio a nessuno.
Rivendico questa condizione: io sono un buon pittore, che non dà fastidio a nessuno.
È una cosa bellissima: in pochi centimetri quadrati tu susciti il mondo che vuoi, in barba a tutto e a tutti. Nessuno ti può venire a dire: ma perché hai fatto un cavallo? Perché lo so solo io —anzi, non lo so nemmeno io, ma è così bello non dover render conto. La pittura è libertà. Io ho pochi temi ripetuti, in cui respiri la libertà. - Tanchi Michelotti
Grazie al Banco Azzoaglio di Ceva per il supporto – in particolare a Erica Azzoaglio per aver creduto nel progetto e per la bella introduzione all'incontro.
Un grazie di cuore a Pietro Contegiacomo, che ha contribuito all’organizzazione dell’evento e al coordinamento degli aspetti tecnici, regalando anche i tre bellissimi scatti in bianco e nero pubblicati in apertura dell’articolo.